Come ridurre le (tante) tasse dei professionisti – Seconda parte

Nei giorni scorsi avevo evidenziato come, al di là della percezione comune che individua nei lavoratori dipendenti e nei pensionati gli unici soggetti che pagano le tasse, i liberi professionisti rappresentano la categoria che ai fini IRPEF dichiara e versa di più.

Avevo sottolineato, inoltre, come a parità di reddito prodotto, il professionista viene chiamato a versare imposte maggiori rispetto a dipendenti e pensionati e come, conseguentemente, tale modello violi il principio dell’equità orizzontale.

Nel contesto della riforma fiscale – declinata nei principi da una apposita “delega” al Governo e, al momento, finanziata dalla legge di bilancio con 8 miliardi di euro – è interessante provare a ragionare su soluzioni alternative alle proposte mainstream, rappresentate dal taglio dell’IRAP (richiesto dalle organizzazioni di rappresentanza delle imprese) e dalla riduzione del cuneo fiscale per dipendenti e pensionati (sollecitato dai sindacati).

Per quanto riguarda i professionisti, invece, l’unica proposta organica sul piatto è stata pubblicata da Confprofessioni, che in un apposito studio ha immaginato una riforma dell’IRPEF volta a recuperare l’attuazione dei principi di equità orizzontale e verticale dell’imposta – mettendo al centro i redditi di lavoro, indipendentemente dalla modalità (dipendente o autonoma) con la quale vengono prodotti – e ad archiviare le distorsioni dell’attuale modello.

Nel documento della Confederazione, recentemente presentato in Senato, vengono individuate tre linee di intervento:

  1. il riconoscimento della medesima no tax area (o meglio detrazione) su tutti i redditi di lavoro, innalzandola dagli attuali 4.800 euro per i professionisti e 8.174 per i dipendenti a 12mila euro annui (ovvero mille euro al mese);
  2. la sostituzione del trattamento integrativo (bonus 100 euro) e dell’ulteriore detrazione previsti a favore dei lavoratori dipendenti con una deduzione forfettaria pari al 5% del reddito da lavoro dipendente (con un tetto di 2mila euro) a titolo di “spese per la produzione del reddito”;
  3. la riduzione di tre punti dell’aliquota del terzo scaglione, portandola dall’attuale 38% al 35% e l’inserimento di un ulteriore scaglione, con aliquota del 45%, per i redditi superiori a 150mila euro.

L’insieme di tali misure permetterebbe il recupero dell’equità orizzontale dell’IRPEF sui redditi di lavoro, ovvero del principio che a parità di reddito si paga la medesima imposta, nonché una crescita più armonica della curva di progressività.

Ma quali sarebbero gli effetti di tali misure? Un professionista con 12mila euro di reddito non verserebbe nulla, risparmiando, rispetto alla situazione attuale, 1.814 euro; con 24mila euro di reddito si passerebbe da 5.198 a 3.890 euro di imposta, con 36mila euro di reddito da 9.852 a 8.540, con 50mila euro di reddito da 15.210 a 14.330, con 100mila euro di reddito, infine, da 36.170 a 35.360. Vi sarebbero, inoltre, significativi vantaggi anche per dipendenti e pensionati della cosiddetta classe media.

Sul piano delle coperture finanziarie tale proposta rientrerebbe nel plafond complessivo stanziato dalla legge di bilancio, con un impegno finanziario stimato in 7,5 miliardi di euro.

Qualora ci fossero ulteriori risorse disponibili, il documento della Confederazione si spinge a proporre una misura “shock” a favore dell’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro (dipendente o autonomo/professionale), ossia l’innalzamento fino a 18mila euro (1.500 euro al mese) della detrazione per i redditi prodotti da giovani fino a 35 anni di età. Un intervento che, inoltre, favorirebbe il graduale passaggio intergenerazionale delle attività professionali.

Tuttavia, a testimonianza di quanto la materia fiscale sia complessa, ritengo che anche la migliore riforma dell’IRPEF possibile non sia sufficiente ad assicurare l’efficienza, in termini di rapporto costi/benefici, e l’equilibrio, in termini di rapporto amministrazione/contribuente, del sistema fiscale. Per raggiungere tale obiettivo occorrerebbe mettere in atto una trasformazione strutturale che contemplasse (almeno) l’elevazione a rango costituzionale dello Statuto del Contribuente, la riforma della giustizia tributaria (professionalizzandone i giudici), la riduzione e la semplificazione degli adempimenti fiscali, proliferati negli ultimi 20 anni, la razionalizzazione della normativa tributaria (riconducendola a testi unici) e, infine, la certezza del calendario fiscale.

Una utopia in un paese che relativamente all’efficienza del sistema fiscale viene costantemente relegato nelle posizioni di rincalzo di studi e statistiche internazionali.

Andrea Dili
Dottore commercialista