Covid-19: l’analisi di Lamberto Manzoli

 

 

Covid-19: l’analisi di Lamberto Manzoli

Dopo la fase più critica e le successive fasi 2 e 3, come interpreta l’attuale evoluzione della pandemia in Italia?

Era inevitabile e atteso, che una volta tornati ad una vita più vicina alla normalità, i contagi sarebbero tornati a crescere. Anche se avessimo prolungato il lockdown, essendo il coronavirus molto contagioso e diffuso a livello globale, non avremmo potuto evitare il ritorno, a meno di non bloccare tutte le frontiere per anni. Non fosse altro che per le merci, ciò è ovviamente impossibile.

Detto ciò, va considerato che il numero di contagi, di per se, ha un significato limitato: è un indicatore della diffusione e della probabilità di contrarre il coronavirus, ma non ci dice molto sull’impatto dello stesso in termini di salute. Ciò che conta sono i casi di malattia severa o critica, il cui numero dipende moltissimo dall’età e dalle condizioni di coloro che vengono infettati.

Se anche noi arrivassimo ad avere 30.000 nuovi infetti al giorno, ma questi fossero tutti giovani e sani, è probabile che i casi gravi sarebbero molto pochi, nell’ordine di una o due decine, e ancor meno morti (sino ad oggi, in Italia, nella fascia d’età tra 10 e 19 anni, i morti sono stati zero).

Se invece avessimo anche solo 200 nuovi infetti, ma questi fossero tutti ottantenni, potremmo avere anche 150 casi gravi e 100 decessi.

Quindi, il dato fondamentale per capire la gravità della situazione non è il numero di nuovi contagi, ma il numero di ricoveri in Terapia Intensiva (che ci informa anche sul grado di saturazione del Servizio Sanitario Nazionale).

In questo momento, fortunatamente, l’età media dei nuovi infetti si aggira sui 30 anni, e infatti il numero di casi di malattia grave è ancora relativamente basso: in totale, vi sono quasi 1300 malati gravi. Capisco che l’aggettivo “basso” possa apparire strano, ma in un paese di 60 milioni di abitanti, 1300 significa che sono malati gravi 2 italiani su 100.000.

Sempre usando i classici parametri epidemiologici, occorre inoltre tenere presente che, da un lato, anche se arrivasse ad avere 30.000 nuovi infetti al giorno, su 60 milioni di italiani, questi sarebbero 5 nuovi infetti ogni 10.000 abitanti. Se anche, per assurdo, continuassimo ad avere 30.000 nuovi infetti ogni giorno (un numero mai toccato prima), nonostante mascherine, distanziamento e altro, tutti i giorni per altri sei mesi, si infetterebbero in totale 910 italiani su 10.000. In altri termini, in uno scenario disastroso, che perduri continuativamente per sei mesi, si infetterebbero 9 italiani su 100 (ad oggi, in 7 mesi, si stima si sia infettato meno del 6% degli italiani). Inoltre, è doveroso considerare che infettarsi, fortunatamente, non è sinonimo di essere malati, e soprattutto malati gravi. Al momento, stando alla recente indagine di sieroprevalenza Istat, la letalità in Italia è stata stimata intorno al 2% (a livello mondiale attorno allo 0.2%-0,5%). Ciò significa che, anche nello scenario disastroso prospettato in precedenza, morirebbero di Covid meno di 2 italiani su 1000.

Se, infine, teniamo presente che l’età media dei deceduti è vicina agli 80 anni, capiamo come, se si vuole affrontare la questione secondo una prospettiva epidemiologica razionale, la comunicazione dovrebbe essere centrata verso la protezione degli anziani e dei soggetti con patologie pregresse, piuttosto che sui giovani. Se gli anziani ed i soggetti fragili venissero protetti, si ridurrebbe drasticamente la probabilità di essere infettati dai giovani, e l’impatto della pandemia sarebbe limitato.

L’app Immuni è stata accolta tiepidamente dal pubblico. Sono stati posti numerosi rilievi che vanno dai problemi legati alla privacy all’effettiva efficacia del mezzo. Ritiene che l’utilizzo di un sistema di tracciamento informatico possa rappresentare un effettivo contrasto alla diffusione del virus?

Quello della privacy, francamente, per quanto possa allarmare in una prospettiva futura, al momento sembra essere il problema minore: vi sono problemi relativi all’efficacia della App per la sua funzione principale, ovvero il controllo dell’infezione.

Nella descrizione del funzionamento della App, secondo quanto stabilito dal Ministero della Salute, è scritto che sono classificati come “contatti a rischio”, i contatti a meno di due metri, per almeno 15 minuti. Tuttavia, vi sono problemi sia sulla distanza che sul tempo.

In primo luogo, la tecnologia bluetooth non rileva la distanza precisa, ma l’intensità del segnale, che varia in base a dove è posto il telefono (in tasca, o in borsa, l’intensità cala drasticamente). Questo fatto crea un problema molto più grosso di quanto si possa immaginare, perché gli sviluppatori dell’App sono di fronte ad un dilemma: se tarano l’App per i soli segnali intensi, questa non classificherà come “contatti” tutti quei telefoni, anche molto vicini, che però sono nelle borsette o nelle tasche delle persone. Se invece tarano l’App per rilevare anche segnali di intensità bassa, questa classificherà come “contatti” anche telefoni molto lontani, quando invece il telefono si trova all’aperto (dove l’intensità del segnale è massima). Di fatto, nel primo caso si creano molti falsi negativi (ovvero, non si colgono come pericolosi molti contatti veri), nel secondo caso si creano molti falsi positivi (ovvero, si classificano come contatti pericolosi telefoni che erano in realtà lontani, magari dietro una vetrina, in un tavolo lontano di un ristorante, etc.)

In secondo luogo, tarando la App a 15 minuti, si perdono inevitabilmente tutti i contatti anche intensi che sono durati meno di 15 minuti (ad esempio, il classico caso di un bacio, che dura magari 3 minuti).

Queste problematiche spiegano gli errori che si sono verificati, con il rischio, in prospettiva, di avere migliaia di segnalazioni sbagliate di contatti a rischio, creando allarmi e richieste ingiustificate di migliaia di tamponi (mandando in tilt i laboratori).

Oltre a questi limiti, vi è un’altra criticità importante: coloro che ricevono la segnalazione non sanno chi è il contatto, sono in quel momento sani, e non hanno un canale preferenziale verso i tamponi. Queste persone sono quindi poco propense a sottoporsi al tampone, sapendo che fino all’esito dello stesso dovranno rimanere in quarantena obbligatoria. Di conseguenza, molti di costoro possono optare per non sottoporsi al controllo, riducendo notevolmente l’utilità della App. Al momento, non è stato fornito alcun dato su questo aspetto.

In ultima analisi, uno strumento che, a livello teorico, potrebbe essere molto utile, a livello pratico ha limiti tecnologici importanti, inevitabili, che ne limitano l’efficacia pratica nel controllo della pandemia. L’indagine epidemiologica classica sui contatti, effettuata da operatori sanitari, per quanto faticosa sia, rimane insostituibile.

Aggiungo, per completezza di informazione, che questo tipo di problemi sono comuni a tutte le App di questo tipo, e non sono specifiche della App italiana (che anzi, pare essere una delle migliori). Ad oggi, queste App non sembrano aver avuto un impatto contro la diffusione del virus in nessun paese al mondo.

(Come funziona Immuni – Leggi QUI l’articolo del Sole24Ore)

E’ allo studio del CTS un piano di forte potenziamento dei tamponi. Potrà essere risolutivo per prevenire focolai di contagio?

Certamente ridurre i tempi per avere i risultati dell’esame diagnostico aiuterà nel controllo dell’infezione e incentiverà le persone con sintomi a sottoporsi al test. Tuttavia, anche io, come la grande maggioranza dei miei Colleghi, sono molto perplesso sulla reale utilità di sottoporre a tampone 400.000 persone al giorno (come è stato proposto), prive di qualunque sintomo o di un motivo valido per considerarli infetti.

Da un lato, il risultato del tampone è utile solo per sapere che in quel momento non sono infetto, e peraltro non del tutto. Se sono negativo, potrei aver contratto l’infezione il giorno prima, ed essere comunque ancora negativo o più facilmente potrei contrarre l’infezione tre giorni dopo. Di fatto, o prevediamo di sottoporre a tampone tutta la popolazione ogni settimana (con costi abnormi, e in ogni caso 400.000 al giorno non basterebbero), o non ha alcun senso.

Dall’altro lato, sottoporre la popolazione a questo numero di tamponi ogni giorno significa arrivare, in 15 giorni, ad aver sottoposto a tampone 6 milioni di italiani. I costi sono comunque enormi, e non sono giustificati dai numeri della pandemia. Concordo totalmente con il Collega Prof. Lopalco: possiamo trovare lo stesso la grande maggioranza degli infetti concentrandoci sulle persone a rischio, senza dover considerare tutti come se fossero tali, e mandare presumibilmente in tilt i laboratori analisi. Questo approccio non è giustificato né logicamente né, soprattutto, da un punto di vista di costo-beneficio.

E’ certamente auspicabile, invece, ridurre i tempi per avere l’esito del tampone, così come introdurre dei test alternativi, rapidi, quali quelli sulla saliva, che potrebbero rappresentare una vera svolta, e che si prevede siano finalmente in arrivo in tempi brevi.

Quale scenario si potrebbe delineare con l’arrivo dell’influenza stagionale e come sarà possibile distinguerla dal Covid-19?

Tutto sta al buon senso ed alla capacità di giudizio degli operatori sanitari e della popolazione. Se prevarrà il panico, è facile prevedere un disastro. L’influenza ha esattamente gli stessi sintomi del Covid, ed è impossibile distinguerla nelle fasi iniziali. Per cui, nei giorni di picco, quando vi possono essere anche 100.000 nuovi casi di influenza, avremo 100.000 persone che ogni giorno si rivolgono alle ASL per effettuare tamponi, in aggiunta agli oltre 100.000 giornalieri che si effettuano già oggi, e tutti i loro contatti in quarantena in attesa dell’esito. E il peggio è che non circola di certo solo l’influenza. Vi sono tante altre malattie infettive che causano febbre, tosse e raffreddore, e che sono anche più frequenti dell’influenza (rhinovirus, virus parainfluenzali, virus respiratori sinciziali, e tutti gli altri coronavirus comuni).

Se si opta per effettuare un tampone a tutti i bambini con il primo segno di malattia, anche un banale raffreddore, in pochi giorni i laboratori saranno completamente saturati, i tempi di attesa per gli esami esploderanno, vi saranno milioni di contatti in quarantena, e sarà impossibile per gli operatori del Servizio Sanitario Nazionale effettuare il contact tracing in tempi e modi adeguati.

Inevitabilmente, occorrerà selezionare le persone a maggior rischio, considerando in primo luogo l’età e le condizioni di salute, ed il secondo luogo l’entità dei sintomi. Se un bambino altrimenti sano ha un raffreddore e 37 di febbre, contattiamo il medico e aspettiamo prima di allarmarci, considerando i numeri di cui sopra è statisticamente molto più probabile che abbia contratto un’altro patogeno piuttosto che il coronavirus.

Ovviamente, il vaccino antinfluenzale potrà essere un valido supporto per evitare lo scenario peggiore, ma non potrà risolvere tutti i problemi. Il vaccino ha, in media, un’efficacia del 50%, per cui anche la metà dei vaccinati potrebbero avere un’influenza, e tutti i vaccinati potranno comunque contrarre tutte le altre malattie cui si è accennato in precedenza, che provocano sintomi identici al Covid. Di conseguenza, anche se riuscissimo a far vaccinare il 100% della popolazione, la metà dei vaccinati – 30 milioni – potrebbero comunque aver contratto l’influenza, e 60 milioni potrebbero aver contratto una delle altre patologie respiratorie. In altri termini, nessun Medico che sappia fare il suo lavoro potrebbe mai escludere che, anche nelle persone vaccinate, sintomi quali febbre, tosse o raffreddore siano dovuti a patologie diverse dal coronavirus. Purtroppo, per quanto il vaccino sia certamente utile per ridurre il numero di persone con sintomi simili al Covid, la sua utilità per la diagnosi differenziale è inevitabilmente bassa: l’unico vaccino davvero risolutivo sarà quello contro il coronavirus. Speriamo ne arrivi uno sicuro ed efficace il prima possibile.