Covid Italia – E’ cambiato il protocollo di sicurezza

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Intervista a Ferruccio Berto Vicepresidente Nazionale ANDI e responsabile Esteri

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Come si procede in Italia a fornire cure odontoiatriche di emergenza per pazienti affetti dal COVID?

In Italia, i pazienti sospetti sono posti in isolamento. I pazienti, anche nel caso presentino pochi sintomi riconducibili al COVID, vengono ricoverati nelle strutture pubbliche in reparti di isolamento per ricevere le cure adeguate. L’attività odontoiatrica di emergenza per questi ultimi viene svolta all’interno degli ospedali. Negli altri casi di pazienti non in isolamento ma potenzialmente portatori di virus le emergenze sono invece seguite dalle strutture private. Tenendo conto che l’odontoiatria italiana è praticata, in circa il 97% dei casi, da privati, si è deciso questo modello per sollevare gli ospedali pubblici dalla necessità di occuparsi anche delle cure odontoiatriche, senza per questo favorire la circolazione di pazienti infetti.

Quali sono state le sfide più grandi nella creazione delle strutture deputate a gestire l’emergenza?

In Italia, il COVID non ha reso necessario costruire strutture specializzate nella gestione delle emergenze odontoiatriche. Da sempre, nella formazione dei nostri odontoiatri, l’operatività in presenza di infezioni e patogeni altamente invasivi è parte integrante del curriculum di studi e della formazione avanzata; è grazie a questo che siamo riusciti a gestire emergenze sociali, come la diffusione delle epatiti B e C o, negli anni ‘80, del virus HIV, registrando un basso numero di infezioni tra i pazienti, e uno bassissimo tra i dentisti e il personale di studio. In questo panorama, si inserisce un virus che si diffonde in maniere nuove, ma non inarrestabili: quello che cambia è solamente quale protocollo di sicurezza da applicare. In questo senso, solo il ricambio d’aria è una vera novità; l’utilizzo di una prassi di disinfezione ferrea e di dispositivi di sicurezza personale (PPE), anche se oggi richiede una cura particolare, è infatti una pratica che gli odontoiatri hanno sempre applicato.

Data la condizione di emergenza, quali particolarità sono in vigore nella sanità pubblica in Italia in riferimento alla pandemia?

La sanità pubblica italiana ha dovuto rispondere velocemente a una situazione di emergenza. Questo è stato fatto aumentando I posti in terapia intensiva e isolamento negli ospedali; dove possibile, attrezzando nuove strutture per accogliere I malati; attrezzandosi per una campagna massiccia di tamponi; attuando misure di confinamento fiduciario o meno dei casi a rischio o sospetti; e, per circa due mesi, istituendo misure di lockdown prima in alcune aree limitate, poi regionale, e alla fine nazionale, misure che stiamo allentando progressivamente solo ora.  Una nota a parte meritano I tamponi: nonostante la politica condivisa sia stata di farne il più possibile, questo è avvenuto solo in alcune aree, solitamente quelle più colpite. In Veneto, per esempio, si sono eseguiti 500 mila tamponi, privilegiando il personale più esposto, lavoratori della sanità in primis; e a Vo Euganeo, il piccolo comune a cui si è fatto risalire uno dei primi casi mortali confermati, una ricerca ferrea ha portato allo screening di tutta la popolazione, fornendo dati preziosi sull’evoluzione e diffusione del virus tra la popolazione.

Quale è il numero degli studi o delle cliniche odontoiatriche che hanno la possibilità di fare un intervento di emergenza ad un paziente ammalato di COVID?

Come detto sopra, il paziente ammalato di COVID viene deferito alle cliniche odontoiatriche degli ospedali, e viene preso in carico dalla sanità pubblica. I privati continuano ad operare per emergenze odontoiatriche, ma non per i casi confermati. La ragione è semplice: il privato intende supportare il pubblico, alleggerendone il carico di lavoro e sollevando i pazienti dalla necessità di muoversi verso strutture già sovraccariche e con presenza di pazienti infetti, ma non può permettersi di diventare un vettore di contagio. In questo senso, diventa di importanza fondamentale il triage telefonico preventivo: ogni paziente in transito viene sottoposto ad un questionario al telefono. In caso di presenza di sintomi riconducibili al COVID, o di trascorsi in aree ad alto rischio di infezione, non viene ricevuto, e lo si deferisce alla struttura pubblica.

Quanti pazienti ammalati di COVID sono stati curati sino ad ora?

Ad oggi non riusciamo a produrre una risposta statisticamente fondata a questa domanda, soprattutto visto l’alto numero di asintomatici che questa patologia produce.

Come si proseguirà in futuro?

Seguendo lungo questa strada, adattandola in ogni frangente, aggiornandola con i risultati di ricerche che oggi sono ancora in corso. La priorità è tornare alla normalità non in maniera disordinata, ma portandosi dietro una serie di accorgimenti in grado di bloccare la propagazione del virus. Per il momento, con la caduta dell’indice epidemico, sembra che si stia andando nella direzione giusta: tuttavia, finché l’emergenza non sarà rientrata, dovremo comportarci come se tutti i casi che ci vengono presentati fossero positivi al virus SARS-CoV-2.

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